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The GOAT Theory: La vera nascita del professionismo

Finor ’ora la GOAT Theory ha seguito un percorso ben definito e lineare. E non poteva essere altrimenti. L’Era Open è relativamente facile da inquadrare, seppur nelle sue numerose sfaccettature che abbiamo scoperto essere più di quanto abbiamo immaginato. L’altro grande filone della storia del tennis, troppo spesso trascurato, è quello dell’Era pre-Open che va dal 1877 al 1967. Sono ben 90 anni di tennis in cui il nostro sport si è evoluto in tanti modi così eterogenei che si fa fatica solo a immaginare che tutto possa essere inquadrato come già successo per l’Era Open. Per poter proseguire bisogna necessariamente splittare il lavoro, in modo tale da risolvere i vari problemi un gruppetto alla volta, per non ritrovarsi così a districare una massa immensa in un sol colpo.

Il primo split da fare è quello della divisione tra professionisti e dilettanti. Tutti più o meno hanno un’idea di come sia andata la storia, ma pochissimi hanno schematizzato questa pluridecennale diatriba seguendo cronologicamente i tornei prima e i tennisti poi che ne sono stati protagonisti. Come tutte le storie anche questa ha un inizio. Così come quando si parla della nascita di una città si menzionano i primi insediamenti risalenti alla preistoria anche qui possiamo parlare di preistoria del professionismo già alla fine dell’800 con le sfide tra i professionisti del Real Tennis che sfidavano i più forti dilettanti del Lawn Tennis. Tom Pettitt, campione del mondo del Real Tennis, nel 1883 sconfisse il campione nazionale statunitense del Lawn Tennis Richard Sears, un dilettante. L’idea dello scontro tra i migliori era un leitmotiv che accompagnava non solo il tennis, ma lo sport in generale. È sempre stato uno dei capisaldi dello sport lo scontro tra i migliori che si contendono lo scettro di “campioni del mondo”. Un’idea che ritornerà spesso nell’Era Pro. Fino al 1926 si organizzavano delle esibizioni tra professionisti e contestualmente a questi si organizzarono i primi tornei riservati solo ai pro. Il più famoso è la Bristol Cup. Primo vero torneo con tutti i crismi e carismi di un evento che si può chiamare tale. Ad esso possiamo accostare anche il German Pro. Però tutti questi eventi non erano organizzati secondo i canoni attuali ed erano più che altro solo delle esibizioni per dire chi era il più forte dei professionisti, che all’epoca erano molto pochi e per lo più erano rappresentati da insegnanti di tennis che per questo motivo non potevano partecipare ai più importanti e famosi tornei riservati ai dilettanti. È un altro tassello importante questo dei “teachers” che ricorrerà sempre nel nostro percorso.

1926

L’anno zero del professionismo è il 1926, con un anno “-1” rappresentato dal 1926. Per renderci conto della rivoluzione che avviene in quell’anno facciamo una rapida panoramica dei maggiori eventi pro.

L’evento più importante tra questi è la Bristol Cup di cui si è già parlato. Però l’evento che pone di fronte i 2 pesi massimi è quello della terra battuta di Berlino. In finale arrivano Roman Najuch e Karel Kozeluh. 2 figure mitologiche della preistoria del tennis. I 2 non sono mai stati dilettanti e per questo relegati in questo limbo che per ora rimane solo un posto isolato neanche appartenente all’Inferno (come ci insegna Dante). Di un certo peso sono i tornei pro del Gipsy, in Gran Bretagna, e il Carlton Pro, giocato sulla terra battuta, appartente al pianeta Costa Azzurra, terreno florido per il clay. Nessuno ha la benché minima considerazione di questi eventi. Gli amateur sono anni luce avanti e anche i partecipanti sono molto più scarsi dei vincitori degli Slam che erano nati da poco.

Il Giovanni Battista dell’epoca, quello della Sacra Famiglia di Michelangelo che divide il paganesimo, gli uomini nudi, e i cristiani, per la prima volta vestiti, è Charles Pyle. Se è già parlato, però è in questo momento particolare della storia che crea uno scisma che sarà fondamentale per la storia del tennis. Fedele allo spirito imprenditoriale americano dei ruggenti anni ’20 pensa che sia assurdo che i tennisti non possano percepire del denaro per le loro prestazioni. Questo lo pensavano in molti, ma lui passò dal pensiero ai fatti. Ci voleva una grande star per lanciare il professionismo. Una star da pagare profumatamente perché tutti la vedessero esprimersi al meglio nell’Arte del Lawn Tennis. Ho scritto Arte del Lawn Tennis non a caso, perché è il titolo di uno dei libri sull’argomento di Bill Tilden. L’uomo che più di ogni altro ha dedicato anima e cuore a questa arte. È stato lui che ha inventato con la sua lungimiranza tante piccole minuzie che oggi sono alla base del tennis. Pyle vuole Big Bill, ma lui non accetta la proposta. Preferisce rimanere tra i dilettanti. Allora ci vuole un’altra stella. La stella, al femminile, per eccellenza di quegli anni era la Divina (quella vera) Suzanne Lenglen. I suoi record sono tra quelli unbreakble della storia del tennis. Sono talmente assurdi che sembrano ridicoli. Ha vinto circa 7 tornei senza perdere un game, non un set, ma un game. Oltre ai numeri era il suo carisma a parlare per lei, e nonostante la sua salute cagionevole deliziava il pubblico con uno stile unico, simile ad una ballerina. Era lei la gallina dalle uova d’oro. Se avesse accettato era fatta. E accettò. Per lei c’erano $50.000, una somma pazzesca per quegli anni. Gareggiare da soli non è mai cosa buona e giusta, per cui ci voleva un’altra stella. Pyle anelava ad avere Helen Willis, protagonista della sfida del secolo a Cannes, oppure Molla Mallory. Nessuna delle 2 accettò, per cui dovette ripiegare su Mary Browne. 3 volte campionessa agli US National Championships, ma nel triennio 1912-1914. Ormai aveva 35 anni, che per quell’epoca erano un’eternità. Però era arrivata in finale ai French Champioships piallata dalla Lenglen 6-1 6-0 (La Divina perse 7 game in 6 partite per vincere il titolo). La Brown firmò un contratto di $30.000. Non male neanche per lei. Come tante storie che seguiranno la prima tappa di ogni tour che conta è sempre il Madison Square Garden di New York il punto di origine di tutte le cose. Se Wimbledon è il Tempio del tennis, l’MSG è il suo Teatro dei Sogni, dove comincia la frontiera del tennis che sarebbe stato. Sono dai 12.000 ai 13.000 gli spettatori che assistono alla rivoluzione. Numeri esorbitanti anche oggi, figuriamoci per quell’epoca. Scontro diretto, H2H, tra la Lenglen e la Browne. Stravince la Lenglen che chiuderà imbattuta la serie durata fino al febbraio 1927. Un 38-0 che suona come un fallimento, ma non lo è affatto.

Se non si può avere Batman, allora meglio deviare su Robin. Rifiutato, per il momento da Tilden, Pyle devia verso il suo scudiero Vinnie Richards. Vincitore delle ultime Olimpiadi, era stato uno dei pochi che nel corso della carriera irripetibile di Big Bill era riuscito qualche volta a mettergli il bastone tra le ruote. Insieme a Vinnie venne viene ingaggiato Paul Feret, un dilettante francese che si sarebbe subito pentito della scelta del professionismo per ritornare dilettante dopo questo tour. Alla troupe si aggiungono i teacher Harvey Snodgrass e Howard Kinsey. Il quartetto è fatto, non un parterre de roi, ma ci sarà tempo. I tour maschili e femminili procedono in parallelo, per cui c’è anche l’occasione di giocare dei match di doppio misto. Oltre a New York si gioca a Toronto, Baltimore, Boston, Philadelphia, Montreal, Buffalo, Cleveland, Pittsburg, Columbus, Cincinnati, Chicago, Victoria. Vancouver, Seattle, Portland, Oakland, Los Angeles. Si chiude a Providence il 14 febbraio (il tour era iniziato il 9 ottobre), stravince Richards sconfitto solo in 4 occasioni contro le 19 vittorie totali.

1927

La “tradizione” pre-1926 continua a sfornare tornei “del vecchio tipo”. Ci continua a disputare la Bristol Cup, che si gioca a Cannes nel dicembre del 1926. Tra i grandi eventi professionistici c’è il Gipsy Pro che si gioca sull’erba del Queen’s con un formato particolare: eliminazione diretta con l’handicap a 15. Si susseguono le grandi sfide secche tra i migliori della classe, però iniziano a delinearsi i grandi eventi che saranno le colonne portanti della nostra teoria. Contrariamente a quanto si possa pensare non sempre quelli che sarebbero stati chiamati Pro Slam sono i tornei più importanti tra i professionisti. Esempio lampante è il World Pro che si disputa al Queen’s a ottobre. Non c’è l’erba, ma la terra battuta, e questa è una sorpresa. Un grande tabellone a 53 giocatori. Vince Dan Maskell, il record-man del British Pro. Si gioca anche in Francia a Deauville dopo oltre ai migliori della preistoria c’è Harvey Snodgrass che è l’unico della truppa di Pyle che va in Europa. Vinnie Richards rimarrà negli USA. Non a caso. In progetto c’è la costruzione dello US Pro, quello che sarebbe stato, almeno sulla carta, l’omologo pro degli US National Championships. Per il momento si gioca con un tabellone a 16 sull’erba di Brooklyn. Ci sono i migliori americani, ma è un torneo “molto leggero” per essere al pari dell’altro amatoriale, anzi è proprio su un altro livello. Ma come sempre in questa lunga storia l’importante è avere posto le basi.

Richards va da solo e fonda l’associazione tennisti professionisti, la USPLTA. Dopo questo primo giro così importante si vota perché il tennis possa diventare “Open”. È la stessa USTLA a proporlo. Niente, arriva la prima bocciatura. È solo una delle tante che si susseguiranno da qui al 1968. Le conclusioni di questo primo giro sono anche altre. I tornei open rimangono un’utopia, ma si capisce anche gli insegnanti di tennis, i professionisti puri, sono infinitamente meno forti dei top player dilettanti. Questo significa che da qui in avanti per poter rimpinguare il circuito pro bisogna andare a pescare dai migliori amateur, soprattutto i vincitori degli Slam. Per la prima volta viene anche stilato un ranking pro. Bowers pone al primo posto Richards insieme a Kozeluh, però non ci sono dubbi che Cochet, Lacoste e Tilden sono davanti nella classifica mista.