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Wimbledon 2018: The Comeback. Djokovic torna grande, 4° titolo per lui

NOLE è tornato. Dopo un letargo lungo 2 anni Djokovic torna a vincere uno Slam là dove era inizia la sua infinita crisi.

La partita

Dopo aver visto di tutto, di più, quello che è reale e un po’ di quello che non lo è nei quarti di finale e soprattutto nelle 2 semifinali il Torneo di Wimbledon si chiude con un pazzesco anti-climax che fa mancare quasi del tutto la serotonina. In campo c’è un ritrovato Djokovic, che tutto sanno aver vinto il torneo venerdì, anzi no, sabato e Kevin Anderson, arrivato all’atto conclusivo avendo dato tutto quello che aveva e un po’ di più con 2 long set vinti per 13-11 ai quarti di finale e 26-24 in semifinale. Non c’è bisogno di spulciare gli annali per dire che il sudafricano è il giocatore che ha speso di più per giocarsi il titolo, però dall’altro lato anche Djokovic ha speso tantissimo, nella partita spezzata in 2 giorni dalla gerontocrazia di SW19. Se 2 arrivano morti nello stesso punto vince quello di forte. Un facile assioma che molti sperano non applichi, ma c’è poco da sperare.

Che ci possa essere la NON partita lo si capisce subito dal riscaldamento in cui Anderson si regge a malapena in piedi e i dolorini si sentono, eccome. Djokovic è stanco, ma non accusa nessun sintomo di menomazione. Si parte e già si arriva. La superiorità serba è manifesta fin dalle primissime battute ed Anderson lascia andare il game di apertura al servizio con un errore gratuito di dritto e poi con un doppio fallo. Break immediato che ammazza la partita. Nole ha servito molto bene durante tutto il torneo e anche in questa circostanza non si lascia pregare. Se si entra nello scambio non ce n’è per nessuno, figuriamoci per una salma come quella dello struzzo. Si va spediti verso il 5° gioco quando l’africano affonda ancora di più le chance di vedere mezza partita. Errore di dritto 1, errore di dritto bis, errore di dritto tris. C’è un’altra palla break. Novak affonda con il passante e poi va a chiudere il NON set. 6-2 in 29 minuti. È successo quello che tutti temevano.

Anderson non ne ha più. Massaggio per lui, ma niente. Forse servirebbero i fagioli di Balzar, la vasca di rianimazione, o ancora meglio, le Sfere del Drago. Il secondo parziale inizia come il primo. Break in apertura. Non a 30, ma a 15. Inutile sperare, si aspetta solo il fischio finale. Non c’è il tempo, i punti si devono fare, però una spugna in campo non sarebbe stata così inopportuna. Anderson sbaglia tantissimo anche con la sua arma migliore: il servizio. Doppi fallo a profusione che sembra un omaggio alla Golden Age del porno. Si replica anche nel 5° gioco e la fotocopia è fatta. Il primo sprazzo di tennis sudafricano arriva nel game di chiusura quando ha addirittura una palla break. Passa subito e dopo 75 minuti siamo ai titoli di coda. 6-2.

Finalmente si ha maggiore equilibrio nel terzo parziale quando entrambi giocano bene nei rispettivi turni di servizio. Anderson ha un sussulto di orgoglio e vuole uscire a testa alta, mettendo in campo tutto quello che ha, soprattutto al servizio che in questo set non traballa. Finalmente non commette errori grossolani nello scambio e si ha una partita. È talmente tanto convinto che si procura una palla break nel 7° gioco che vale il boato del pubblico. Ce ne sono altre 2 nel 10° gioco quando Nole va sotto pesantemente mettendo a referto 2 doppi falli (sono anche set point). Però non si passa. Djokovic ha deciso che si deve chiudere in 3 perché la finale Mondiale sta per iniziare e i diritti, quelli televisivi, costano. Si va al tiebreak. Il 4° tra i 2. E qui non c’è niente da fare. Errori a profusione. Nole sale spedito verso il 5-1. Poi si rilassa cedendo il minibreak che porta il punteggio sul 5-2. Ancora erroracci africani e siamo a match point. Servizio vincente e nessuna esultanza clamorosa. Braccia al cielo e urlo liberatorio. Ruminata dell’erba, come di consueto, e cuori per tutti. È il 4° Wimbledon per Nole, quello più inatteso, quello più bello.

Il torneo

Nessuno aveva puntato gli occhi su Djokovic. Forse solo qualche nostalgico dei bei tempi, o tifoso che non aveva mai mollato. Eppure Nole era un 3 volte campione ai Championhips al pari dei tanto blasonati erbivori come Becker e McEnroe. Sul manifesto dell’evento era presente, per cui, nonostante la pesante tds 12 che non gli si addice, qualcuno ha avuto modo di ammirare le sue gesta. Qualche segnale di ripresa si era avuto al Queen’s, evento da sempre preambolo dei Champioships. Lì era arrivato in finale perdendo con tanto di match point contro Cilic. In barba ai suoi soliti standard, o almeno agli standard del “vero” Nole, quello dal 2011 in poi è andato a giocare un torneo vero di preparazione a Wimbledon. Un po’ per trovare fiducia, un po’ per fare risultato, dato che la classifica lo colloca lontano dalle posizioni che contano. La batosta subita da Cecchinato era stata pesante, e fanno un po’ sorridere le parole che disse a caldo dopo quella pesante sconfitta:”Non so se giocherò sull’erba”. Sull’erba ci è andato ed è ritornato grande. A conti fatti il suo tabellone era il più semplice tra i Fab, però nessuno lo aveva evidenziato, visto che Nole non era Nole, e non era più neanche un Fab. I pronostici, le proiezioni e le illazioni correlate si focalizzano solo sulle prime teste di serie, le altre non contano, o contano poco, visto che essere scarsi non ti dà garanzie sul battere i più scarsi. Tolto di mezzo Thiem al primo turno, tutto è stato molto semplice e, chi ha l’olfatto sopraffino aveva capito che ci poteva scappare il botto. Botto della parte bassa. La parte alta era sigillata con la ceralacca dal numero 1 del seeding, ma numero 2 del mondo, Roger Federer. Nel primo turno per Nole c’è stato Tennys. Con la “y”, che di cognome fa Sandgren. Spazzato via con un netto 6-3 6-1 6-2. Stessa sorte, ma con una permutazione semplice dei game persi è spettata a Horacio Zeballos, che il 50% di chi segue il tennis ricorda per la famosa finale di Vina del Mar del 2013, e l’altra metà non sa chi sia. Guarda caso le proporzioni sono uguali a quelle che riguardano la spartizione della torta del “tifo”, che va per la maggiore lo svizzero Made in Japan. Nel terzo turno già Kyle Edmund ha messo subito le cose in chiaro vincendo il primo set, riportando alla luce i fantasmi che ancora non sono scomparsi dalla mente del serbo. Però il magic moment del numero 1 di Gran Bretagna è durato poco perché nei successivi parziali è andato ancora a lezione da Nole, 5 volte Maestro, non a caso. Domenico non c’è, c’è Khach, reo di avere estromesso Tiafoe dopo che questi era andato in vantaggio di 2 set a 0. Anche il russo subisce un pesante parziale da parte del serbo che appare nuovo, e con una meccanica del servizio del tutto rinnovata, forse per far fronte al costante problema al gomito che lo attaglia ormai da tanto tempo.

Non c’è Kyrgios, ma c’è Nishikori, altro grande rappresentante della Uniqlo che porta ai quarti di finale a Wimbledon per la prima volta nella sua storia 2 giocatori (tanto chi controlla?). Un Djokovic ondivago ha la meglio nel primo set contro il nipponico, poi cala vistosamente e ancora fantasmi. Per sua fortuna Nishi non è un erbivoro, anzi non si sa perché sia qua. Sia per il suo curriculum, sia per il suo recente passato. Eppure, una volta nel ballo si balla. Nole preme sul gas e se ne va. La risposta non è fulminea e ficcante come un tempo, ma basta e avanza per avere la meglio sulla tds 24 che potrebbe benissimo imitare i suoi connazionali del Pallone che dopo l’uscita con il Belgio hanno scritto un biglietto negli spogliatoi russi:”Grazie”. Altra cultura, altra razza. La vittoria contro Kei segna un punto di svolta essenziale per la carriera di Nole, almeno di questo ultimo periodo. L’assunto essenziale è: io non mi faccio battere più da cani e porci, ora sono tornato ai miei livelli, molto dipende da me, però ora saranno solo i grandi avversari a dovermi mettere alla prova e non uno scappato di casa qualsiasi.

La prova del 9 esistenziale per Djokovic è stata la partita contro Nadal. Partita epica che passerà alla storia e senz’altro sarà annoverata tra quelle da ricordare per questo 2018. Per quanto tutti gli Slam ormai sia sullo stesso livello e stranamente e a-aleatoriamente strano che quasi sempre le migliori partite si concentrino in questo torneo, che rimane sempre il più antico e prestigioso. Come al solito la prima semifinale si gioca alle 13 BST (orario inglese) quando in Italia sono le 14. Entrambe le semifinali si gioca sul Centrale, per cui non si sono evidenti problemi, visto che c’è il tetto, che serve in caso di pioggia, e ci sono le luci previste nel caso in cui la partita si prolunghi oltre il tramonto. Nessuno mai ha pensato che possano esserci delle difficoltà in merito, e molti, se non tutti, stentano a credere che esista un decreto municipale che vieta il prosieguo delle ostilità oltre le 23 locali. I non credenti sono talmente tanti che ci sono dubbi sull’esistenza o meno di questa regola. Eppure una volta era stata applicata. Nel 2012 Murray sconfisse Baghdatis sul Centre Court terminando alle 23:02 locali. Non era un match importante, ma si rivelerà un precedente storico fondamentale. Isner è chiamato anche Long John, per via della sua statura, però qualche maligno sostiene che sia anche per altre doti…come quella di giocare long set a profusione. Tutti si ricordano del match infinito contro Mahut, ma ce ne sono altri nella bacheca: contro Mischa agli Australian Open 2017, contro Tsonga qui nel 2016, sempre qui contro Cilic nel 2015 e diversi altri, anche in Coppa Davis. Il presagio che si possa andare al long set anche con Anderson c’è, però John è molto più forte sulla carta dell’avversario sudafricano, per cui si spera che la tenzone si possa chiudere entro 3-4 set. Invece tutto scivola sia liscio. Anderson si prende il 4° set dopo essere stato sotto per 2 set a 1 e inizia la litania. Con questi attrezzi, con quei giocatori è improbabile vedere un break e l’attesa diventa infinta, snervante e, per certi versi, assurda. Qualcuno vorrebbe che si lanciasse la monetina, però non si può, lo dice il regolamento. La luce in fondo al tunnel arriva sul 24 pari, dopo 6 ore e 36 minuti di gioco. Vince Anderson, però ormai il danno è fatto. Sono le 20 a Londra quando finisce lo strazio. Mancano solo 3 ore al coprifuoco stile Secondo Guerra Mondiale. Però qui non c’è la Luftwaffe che sgancia bombe su Londra. No, qui sono i residenti a fare la voce grossa, in qualcosa che, analizzata dal punto di vista della logica pura, non ha assolutamente senso. Una partita di tennis si gioca dentro un campo molto piccolo rispetto a quelli di calcio, football, rugby. Tutti gli spettatori stanno in silenzio, e se c’è il tetto chiuso fuori non si sente volare una mosca. Il vero casino, rumore viene prodotto dai tantissimi spettatori che formano la cosidetta Queue (leggere qhiu) che rimangono appollaiati vicini ai Doherty Gates sperando di accaparrarsi i posti migliori. E anche se ci fosse un rave party con David Guetta a suonare, non si capisce perché bisogna interrompere entro un certo orario, visto che la pecunia che gira a SW19 fa comodo a tutti i residenti che possono lucrare, senza fare nel male a nessuno, sull’evento. Succede anche nelle sagre di paese, e i provincialotti italiani sono disposti ad un piccolo sacrificio, sapendo di avere un profitto per la propria comunità.

L’assurdo si aggiunge all’assurdo. Ancora c’è luce però si decide di chiudere lo stesso il tetto. L’idea di base è che si prevede che la partita debba durare diverse ore, per cui la chiusura preventiva del tetto serve a fare risparmiare l’eventuale tempo di chiusura che sarebbe stato necessario se si fosse iniziato con il tetto aperto. Una logica a metà e del tutto arbitraria, visto che per chiuderlo il tetto dopo la partita Isner-Anderson hanno comunque perso quel tempo, sprecato quel tempo invece di iniziare la partita, che poteva, anche se è un’ipotesi remota, terminare prima.

Djokovic e Nadal li conosciamo, e si sa che le loro sfide vanno per le lunghe, per cui l’idea che si possa andare oltre il tramonto è quasi sicura. Però almeno quella di finire prima delle 23 ci deve essere. La partita tra i giocatori che hanno giocato il maggior numero di H2H ufficiali tra di loro non è bella nelle prime fasi. Nadal gioca male e commette degli errori molto ingenui, Nole ne approfitta mettendo a segno anche un servizio di ottima fattura che gli permette di stare davanti quando è lui a battere. Il primo set è serbo. Nel secondo il numero 1 del mondo si sveglia e finalmente inizia a ricamare il campo. Djokovic fa quello che può ma deve abbozzare e fare gli straordinari per far fronte ad un Rafa che sbaglia poco o niente e a rete e che trova sempre l’angolo giusto. 1 set pari. Estremo equilibrio nel 3° parziale in cui i 2 cavalieri giocano al loro meglio. L’impressione è però che sia la tds 2 ad avere maggiori soluzioni e occasioni per portarsi a casa il set, però si va al tiebreak che sembra prendere la strada per Manacor, quando Nole tira fuori la difesa dei bei tempi e annulla 3 set point preziosissimi. Si chiude con un 11-9 serbo che si rivelerà fondamentale. Sono le 23:04, arriva il Presidennte della Commissione dei Festeggiamenti della Festa di San Giorgio e dice che si deve rinviare. Tutti l’avevano capito, ma nessuno ci vuole credere. L’impianto è perfetto, gli spettatori non voglio andare via. È ancora presto e la partita deve concludersi in quella giornata. Il giorno dopo i riflettori devono essere per la finale femminile, non si può declassare questa finale per l’evento che senz’altro avrà maggiore appeal come la semifinale tra Djokovic e Nadal. Però le regole sono regole. Che mondo sarebbe senza le regole? Si interrompe tutto e la ripresa è programmata per le 13 del giorno dopo.

Visto che ormai la frittata era fatta, perché non aggiungere un altro uovo? Il famoso regolamento prevede che una partita che iniziata in una “condizione” deve finire nella stessa condizione. Una regola un po’ naif, che qualcuno avrà scritto per mero scrupolo giuridico, tanto quando verrà mai applicata con il tetto e le luci? Il genio della giurisprudenza sportiva trova il suo zenit quando si rende conto che la sua regola deve essere applicata in questo contesto. Non piove, sono le 14, eppure si gioca con il tetto chiuso. Una situazione tragicomica che sappiamo tutti chi avvantaggia, ma conta poco. Quelle che sono più importanti sono le regole, non a chi vengono applicate. Qualsiasi altro caso sarebbe stato grottesco in egual misura. Il risultato è quello scontato. La partita va avanti per le lunghe perché Nadal è in forma, pareggia i conti e si va al quinto. Non ci sono bombardieri, però la spada di Damocle del Long Set pende ancora sul campo più famoso del mondo. Dopo il 6 pari è ufficiale. Il gay pride in tribuna formato da Martina Navratilova e Billie Jean King deve sorbirsi l’epicità di uno scontro che però deve i 23i cromosomi dei protagonisti, uno X e l’altro Y, le 2 X deve attendere, anche se hanno la vescica piccola. Sul 7 pari Nadal si porta 15-40 e ha 2 break point che sanno di match point. Un Nole stratosferico le annulla entrambe e si porta avanti. È lui a uscire da questa battaglia che entra di diritto nella storia del torneo. La partita che segue viene completamente subissata dalla semifinale maschile. La finale femminile è una non partita di un’oretta in cui ha vinto la più forte. Billie Jean ha ottenuto, nel 1973, tra gli applausi demagoghi di chi usa la pancia invece della testa, la parità di prize money. E non si capisce perché lei sia in continua lotta con il sistema, visto che sono ormai sono passati 45 anni da questa bruttura economica, che ormai è legge in tutti gli Slam. Djokovic esce vincitore dallo scontro epico. Finalmente è tornato. È tornato a tutti gli effetti. Dall’altra parte non ci sarà Federer, e il titolo per lui è stato vinto di sabato.

Record

  • Djokovic vince il 13° Slam (4° all time dietro a Federer, Nadal e Sampras)
  • 251 vittorie per Djokovic negli Slam (2° in era Open dietro a Federer)
  • 65 vittorie per Djokovic a Wimbledon (4° in era Open)
  • 22a finale Slam (3° dietro Federer e Nadal)
  • Giocatore con ranking più alto a vincere Wimbledon, No. 21, da tempi di Ivanivevic, No. 125 nel 2001
  • 1° giocatore a vincere a Wimbledon con 9 sconfitte in stagione, dopo Federer nel 2003

Conclusione

Nello sport ci sono stati tanti “Comeback”, quelli che riguardano i singoli eventi. “The Comeback” è quello dei Buffalo Bills della NFL che rimontarono un deficit di 32 punti contro gli Houston Oilers per poi vincere all’overtime. Più recente l’America’s Cup del 2013 quando Oracle Team USA riuscì a recuperare l’1-8 contro New Zealand Team per vincere 9-8 la serie e la Coppa.

Il più grande comeback della storia dei singoli è quello di Michael Jordan, che nel 1993 decise di ritirarsi a causa della morte del padre, ucciso davanti a suoi occhi. Dopo 3 titoli vinti consecutivamente si diede al baseball per poi rientrare sempre con i Chicago Bulls nel 1995 più forte di prima.

A questi comeback si aggiunge quello di Djokovic che per 2 anni è stato costretto a vagare in un limbo che non gli appartiene. Ai Championships dopo il Wimbledonazo contro Sam Querrey era crollato, ai Championships risorge. In questi mesi è stato troppo brutto da vedere. L’inizio del 2017 sembrava la pietra tombale della sua carriera con le sconfitte contro Istomin e contro Kyrgios, 2 volte. Piccoli sussulti sulla terra battuta, ma niente di concreto, compresa la finale scontata e poi persa con Zverev a Roma. Nel mezzo il torneino di Eastbourne, forse il punto più basso della sua carriera. Ancora infortunio, fine stagione dopo la sconfitta a Wimbledon per ritiro contro Berdych. Clamoroso tonfo con tris di sconfitte consecutive contro Chung, Daniel e Paire. Anche quella con Edmund a Madrid non è stata il massimo.

Queste sono le statistiche e i nomi dei suoi carnefici. Nel mezzo però ci sono anche le tante ragioni e non ragioni che avevano fatto pensare ad un mesto tramonto arrivato troppo presto. Per prima l’alimentazione che tanto gli aveva giovato, quella del gluten free, che poi si è rivelata, a detta dei non esperti, un boomerang. Poi le tante tendenze esotiche alla John Lennon con tanto di guru a seguito. Agassi, poveretto, è stato chiamato a fare quello che non è il suo mestiere, e che non può neanche inventarsi. Quello di coach. Manca di esperienza e di tatto e non poteva essere lui l’uomo della provvidenza. Mettiamoci anche i problemi con la moglie, la bambina e tante vicissitudini che sommate tutte insieme potevano fare scoppiare chiunque. È dovuto ritornare all’usato sicuro, quello di Vajda, per ritrovare quantomeno le proprie certezze, poi i risultati sarebbero arrivati da soli. È clamoroso che il botto del ritorno sia arrivato nel torneo più prestigioso, e sull’erba che, a detta dei non esperti, non è il più habitat naturale. Con i suoi 13 Slam si avvicina alla tanto agognata quanto perversa e inutile lotta a chi avrà più Major a fine stagione. Stacca Emerson e si porta ad una lunghezza da Sampras. Non è certo questo titolo a metterlo sopra, sotto, di lato a tanti mostri sacri. Quello che è certo è che con 3 Slam vinti da 3 giocatori diversi nel 2018, ma pur sempre quei 3, la nuova generazione è morta e sepolta. L’idea che quei 3 possano essere competitivi ai massimi livelli, nei tornei che contano, disintegra ogni velleità dei giovani che dovevano vincere necessariamente. Uno va bene, 2 così così, con 3 tutte le porte sono sigillate. Djokovic ritorna accanto a Federer e Nadal e non ce n’è per nessuno. Si torna alla stessa configurazione di 10 anni fa, come se il tempo non fosse passato per nessuno. Il cambiamento auspicato e prevedibile non c’è stato e ora…chissà cosa potranno dire le nuove leve con i Fab tornati alla grande.

Ora ci sarà una lunga pausa del grande tennis che ritornerà a Toronto con la novità dello shot clock. Ora tennis leggero e pausa per riflettere.

(seguirà analisi su Federer e Nadal)