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US Open 2018: I secondi secondo me

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Se Sparta ride, Atene piange. Ormai è consuetudine che Djokovic dopo la vittoria agli US Open si metta a gridare con quel babbeo di Gerard Butler, che forse ha fatto solo questo nella sua carriera. “THIS IS SPARTAAAAA!!!”. Finito. Sparta se la spassa e Atene che fa? Piange i suoi dolori. Se Nole vince gli altri 2 coinquilini del gotha del tennis attuale stanno messi male. Uno malino, l’altro malissimo. Nadal e Federer purtroppo sono stati bocciati in questo US Open e hanno rilanciato pesantemente le quotazioni del loro rivale. Sembra quasi una giostra perversa, ma il destino di questi 3 giocatori è legato indissolubilmente, e se nessuno delle retrovie ne approfitta allora le dinamiche del trio sono anche le dinamiche del tennis mondiale. Ma andiamo per ordine. Federer.

Dopo aver perso pesantemente la finale contro Nole a Cincinnati e dopo aver saltato il Masters del Canada, quindi niente scuse quest’anno, Federer era chiamato ad una grande prestazione a New York, nello Slam che lo ha visto trionfare 5 volte consecutive, e il cui dominio sembrava destinato all’eternità visto che era arrivata la vittoria, l’ultima, nel 2008, l’anno delle batoste per lui. Dalla finale contro Del Potro, anzi dal 5-4 30-0 e servizio del 2° set di quella finale con l’argentino tutto è andato storto, per un motivo o un altro. Storiche ormai sono le 2 semifinali contro Djokovic nel 2010 e 2011 entrambe perse con 2 match point a favore (anche se nel primo caso erano sul servizio avversario). Poi i vari Robredo. Il 4/23 e I have a change Cilic. Roger è il detentore dell’altro Slam su cemento dell’anno e parte tra i favoriti. Però fin dal sorteggio si capisce che non è ancora l’annata giusta. Anche se la cabala ci suggerisce un ipotetico decennale di time span che sarebbe storia. Pesca Kyrgios al terzo turno e Djokovic ai quarti di finale. Insomma, un inferno prima che il torneo abbia inizio. Però dal giovedì della sorte si passa al lunedì dei fatti. Il primo avversario è il leggerino Nishioka. Spazzato via in 3 comodi set. Però non comodissimi. In mezzo ci sono ben 9 palle break concesse di cui 1 concretizzata. Farsi breakkare da Nishi 2.0 non è un buon biglietto da visita. C’è Paire al secondo turno che tanto l’aveva fatto penare ad Halle salvando anche match point e andando ad incrementare l’(anti)-statistica per eccellenza. In Germania si era visto un ottimo francese, qui la versione Mr. Hide. Quella brutta, brutta, brutta. Quella delle sfuriate senza senso, dei dritti anormali (non anomali) e dei tanti giochetti che non servono a niente. Per questa volta si passa lisci, indenni, senza subire ferite, anche se quell’altra statistica fa un po’ storcere il naso. 6 palle break subite e ben, e dico ben, 2 concretizzate. Non è il Federer del 2015 che arrivò in finale sparato a razzo. Non è, non lo è neanche minimamente. Sì, però ora c’è Kyrgios, l’avversario che doveva metterlo più in difficoltà. Nick arriva al terzo turno dopo il simpatico quanto vituperato siparietto di Layhani che lo aveva psicoanalizzato live, in diretta, senza pubblicità nel match contro Pierugo dicendogli che lui lo poteva aiutare, che quello delle bischerate non era lui. Meglio di un padre, di un dottore. Pierugo si incazza, però non può farci niente se dopo l’unzione dell’umpire ha imbarcato acqua da tutte le parti con bagel annesso. Federer gioca la partita perfetta contro l’australiano che però è molto lascivo, e le parole spese a suo favore nella partita precedente si sciolgono come neve al sole. La partita la fa solo lo svizzero che si permette anche di mettere uno shot around the net con tanto di stupore da gif dell’avversario.

Roger passa e sembra una formalità la partita con Millman prima della revenge di Mason (non è un film) contro Nole. Dopo un primo set stradominato cede le armi ad un volito ma mediocre tennista del Queensland. John non fa niente di straordinario. Deve solo mettere la palla dall’altra parte. Roger evapora man mano che passa il tempo, sia per colpa del caldo, sia per colpa di una condizione che ormai non può essere più quella di una volta. Per come è arrivata, per dove è arrivata e per quando è arrivata è forse la peggiore sconfitta in carriera di Federer. Forse si avvicina molto a quella dell’Australian Open del 2015, quando non seppe più cosa fare contro Seppi. Ma allora arrivava da un lunghissimo periodo di magra nonostante l’ottima stagione del 2014, però mai conclusa con lo Slam in saccoccia come questo 2018. Il calo di Federer dall’inizio del 2018 è palese. Il Bradbury Path di Melbourne lo aveva premiato oltre modo, anche se poi aveva avuto modo di cogliere un grande traguardo a Rotterdam diventando il più vecchio numero 1 della storia. È quel 40-15 contro Del Potro che pesa come un macigno. Da allora solo magre figure e il torneino di Stoccarda in bacheca. La finale a senso unico a Cincinnati poteva essere un segnale, però quello è NOLE, ci sta perdere con lui, non con Millman, non in questo modo. A preoccupare è ora la classifica con un raggiante Djokovic in the hunt e con Nadal distante anni luce. Sul suo sito ufficiale si legge che parteciperà alla Laver Cup e a Basilea, saltando così Shanghai dove difende il titolo. Sarebbe un bel guaio dal punto di vista del ranking perdere 1000 punti senza nemmeno sfoderare la spada. Però si sa che ormai lui gioca per vincere gli Slam sul veloce. Il resto è solo contorno, un rumore inutile che serve soltanto a preparare quei 3 eventi. Non ha senso ormai dire che dovrebbe giocare qui o non dovrebbe giocare qua. Gli US Open hanno dimostrare che la programmazione non conta, o comunque è ininfluente se poi perdi dal primo carneade che incontri. Si parla di un’altra resurrezione che potrebbe esserci ancora per il Re. Ma quale resurrezione? In uno sport come il tennis basta imbroccare la strada giusta e indovinare 7 partite per ritornare di nuovo in auge. Il Re non è morto e fino a quando sarà in campo lo farà per vincere, non certo per allungare una carriera che non ha bisogno di andare avanti con dei risultatini per ingrandirla più di quanto immensamente gigante sia ora.

Il terzo vertice del triangolo diabolico è, non a caso, Rafael Nadal. Dopo aver vinto a Toronto e avere buttato dal tetto Wimbledon uno Slam, non a caso, era tra i favoriti di questo torneo. Non aveva mai saltato deliberatamente un torneo importante prima di uno Slam. In passato c’era stato sempre un maledetto infortunio ad impedirgli di prendere parte almeno ai 9+4+1 eventi importanti dell’anno. Questa volta ha deciso di non andare a Cincinnati per riposare. Una scelta saggia dal suo punto di vista. Non tanto dal punto di vista del tifoso che vorrebbe vederlo ovunque. L’età si fa sentire anche per lui e saltare i tornei risulta vitale per poter andare avanti, anche se sminuiscono in parte i record di longevità che con il salto sistematico dei tornei ha poco senso. Ma veniamo allo US Open manacoregno.

Nel primo turno c’è il grande, grandissimo amico Ferrer, ormai finito, che gioca a New York il suo ultimo Slam. Più che una partita è una esibizione dove però non sfigura il buon Ferru che, come Connors al Roland Garros del 1991 contro Chang, si ritira essendo in vantaggio nel punteggio (anche se ha perso il primo set). Non ce la faceva più il grande pedalatore valenciano che più di ogni altro ha corso nel circuito. Grande omaggio per lui anche da parte di Nadal che non può non applaudire il connazionale, scudiero di tante batttaglie in Davis. Al secondo turno c’è Pospisil. Poco più di una formalità. Non vale la pena soffermarsi su questo NON incontro. Il primo ostacolo serio è il giovane Khachanov, battuto facilmente nelle precedenti uscite, che però qui si rivela una brutta gatta da pelare. St’ cazz’ e russ tira dei macigni contro lo spagnolo che viene scalfito. Il primo set va via e si capisce qui che non sarà il torneo di Nadal. Piovono vincenti da tutte le parti, ma quello che è più importante è il ginocchio destro che comincia a scricchiolare. Non si fa caso più di tanto a questo particolare perché si chiude in 4 set anche se con 2 lottati tiebreak. Chi conosce Rafa sa che da qui in poi sarà durissima. Chi non lo conosce parla a sproposito. È l’innocuo Basilashvili a prendersi dei meriti che non gli appartengono nel quarto turno. È il quarto turno più facile del mondo e il precedente tra i 2 al Roland Garros parla di un massacro senza pietà. I 3 set qui sono d’obbligo e fino al 98% del match nessuno avrebbe puntato un cent sulla vittoria di un parziale da parte del georgiano. Però Nadal non è cinico e si fa trascinare malamente nel fango nel 4° parziale dopo aver perso il 3° incredibilmente al tiebreak. È solo un fuoco di paglia, però non si può perdere set contro Basil l’Investigatopo. Nei quarti di finale c’è Thiem. L’austriaco che dopo Wimbledon ha riscritto il concetto di sconfitta nel tennis e che mai ha brillato sul cemento. Sulla carta è una partita facile o poco più, invece sarà durissima. Thiem è una furia e Rafa non può nulla nel primo set. Arrivati al 4-0 del Muster 2.0 si tirano i remi in barca e si arriva alla conclusione che è meglio prendere un bagel e non sprecare energie, piuttosto che vincere game inutili. Però l’onta rimane. Nadal ha preso un 6-0 da Thiem. Incredibile. La partita sale vertiginosamente e Dominic spara vincenti a più non posso. Partita stellare che però Rafa riaggiusta nel secondo e terzo set. Potrebbe anche chiuderla nel quarto quando l’epica bussa alla porta dell’Arthur Ashe. Non si chiude. Il numero 1 del mondo spreca e lascia andare un altro tiebreak. Il ginocchio fa male, ma si deve lottare. Non si sa come ma il 17 volte campione Slam tira fuori tutto quello che ha e riesce a vincere al tiebreak del quinto una partita abbondantemente andata. Sono trascorse 5 ore. È la partita del torneo, forse dell’anno. Rafa è passato, ma di lui è rimasta solo l’ombra, la polvere e qualche goccia di sudore. Neanche le scarpe lasciate chissà dove per l’intervista.

In semifinale arriva un giocatore senza benzina. L’assenza di benzina ti fa pensare stranamente e magari i movimenti non sono lucidi. Il problema al ginocchio camuffato come meglio si poteva presenta il conto salato, salatissimo. Lo step al ginocchio dura poco. Nadal lo strappa via rassegnato che non possa essere utile. Nonostante tutto riesce ad arrampicarsi fino a strappare il servizio a Del Potro che serve sul 5-4 per chiudere il set. Poi brutto tiebreak e i buoi sono scappati. Il secondo set si gioca solo per il pubblico e le statistiche. Un Nadal di solo braccio fa la sua figura, ma non rincorre più una palla. E se Nadal non corre allora il suo gioco non serve a niente. Simpatico è il siparietto con l’umpire in cui protesta per una palla fuori e dice apertamente:”I’m gonna retire, però ‘sti cazzi..”. Per un momento dopo il secondo set si siede come quasi a trovare qualche illuminazione dal cielo. Poi arriva il buon senso e si stringe a Del Potro come aveva fatto a Wimbledon, solo che questa volta è lui a perdere. Salta così la grande finale che poteva essere la sfida dell’anno e senz’altro rivincita del Roof Gate. Questo ritiro costa caro al numero 1 del mondo che rimane tale, però ora è costretto a saltare la semifinale di Davis cui teneva tanto. La Laver Cup sarebbe stata comunque un miraggio a prescindere. Sembra Shanghai la prossima tappa per lo spagnolo, ma il mesetto necessario a recuperare a pieno da un problema al tendine tendono a postare più in là il suo rientro. Rientro che servirà soltanto a difendere il numero 1 del mondo. Difficile, se non impossibile, vincere a Bercy e soprattutto le Finals di Londra. Non c’è riuscito da sano e in uno stato di grazia, figuriamoci senza un ginocchio. Comunque sia noi ti aspettiamo, per l’ennesima, e forse, non ultima, volta.

US Open 2018: Nole 14. Djokovic vince il 3° titolo a New York

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Non si ferma più il comeback di Djokovic. Dopo Wimbledon, vince gli US Open, aggancia Sampras e ha ancora fame.

La partita

La sfida che chiude questi US Open vede di fronte il lanciatissimo Djokovic contro un sempre lodevole, ma comunque inferiore, Juan Martin Del Potro. Fuori piove e si gioca con il tetto. Siccome Nole non era così favorito, la sorte l’ha voluto premiare giocando nelle condizioni che lui predilige maggiormente e con un avversario che arriva qui grazie all’infortunio di Nadal in semifinale. Il copione della partita è scontato come una commedia americana. Da un lato Nole gioca spesso e volentieri sul rovescio dell’avversario, quindi spingendo sulla sua diagonale di sinistra per mettere in difficoltà Juanito nel suo punto più debole, che però si difende girando lo scambio sul dritto, colpo che spinge molto quando può. Il risultato di queste 2 forze contrapposte è una particella sub-nucleare detta “backettino”. Sì, si gioca sullo slice molto frequentemente e la partita, così, ne risulta molto noiosa. Nelle prime battute c’è estremo equilibrio ed è il numero 6 del mondo a subire maggiormente lo scambio perdendo più punti al servizio. Ma niente di grave: se non si arriva a palla break non vale a niente collezionare punti su punti in risposta. Dopo mezz’ora arriva il primo imprevisto. 4-3 40-0. Turno di battuta che va spedito verso la fine e invece no. Del Potro si incarta su sé stesso e si fa rimontare come un Federer qualsiasi. Nole ha il merito di non lasciare niente al caso, però dall’altra parte della rete almeno 2 dritti della vergogna condannano senza appello l’argentino. Dopo il break il set scorre velocemente e si chiude subito alla prima occasione. 6-3 e partita ampiamente finita.

Del Potro è scoraggiato da un set che poteva benissimo andare al tiebreak, ma che gli è sfuggito per colpa di un maledetto break. Questa depressione lo porta ad andare sotto anche quando è lui a battere nel secondo parziale e grazie ad un passante di rovescio Djokovic si procura una palla break. Per fortuna viene annullata. Però ce n’è un’altra. Sfugge anche questa. La partita stava per scappare, ma per ora rimane in gabbia. Juanito sbaglia ogni oltre misura, indotto anche da un ritrovato Nole che costringe sempre a giocare male il suo avversario. Break e 3-1 che sa di titoli di coda. Un gruppetto di 16 argentini ci crede, ci ha sempre creduto e sempre ci crederà. Grida a squarcia gola: ”Oleeeee, Ole, Ole, Oleeee, Del Pooooo, Del Pooooo”. È la carica giusta. Meglio del Pocket Coffee. Del Potro tiene il servizio e sale con i colpi fotonici di dritto. Djokovic soffre terribilmente e non riesce a girare lo scambio come vorrebbe. C’è la prima palla break. Sfugge per colpa di un passante andato male. C’è un’altra occasione. È quella buona. Djokovic mette fuori con il dritto e siamo sul 3 pari. La partita è girata. Juan Martin vola sulle ali dei tanti tifosi argentini che ora lo sostengono a gran voce e piazza l’ace che fa tremare tutta Flushing Meadows. 4 a 3. L’8° gioco è la chiave di tutto l’incontro. Dura 22 punti e si vedono ben 3 palle break. Sono quelle che avrebbero cambiato la storia del match e non solo. Però non si passa. Molte sono le colpe dell’argentino e qualche merito va dato anche al serbo che non ha mollato quando ormai l’inerzia non era più dalla sua parte. Ottenuto il 4 pari si va spediti verso il tiebreak. L’ultimo treno per Buenos Aires. Del Potro va avanti di un minibreak, ma vale a poco, perché Nole azzanna il suo avversario ed è presto sul 3-3. La partita svolta per Belgrado e l’errore di dritto di Del Potro segna l’ora fatale con un minibreak che vale il set point sul 6-4. Djokovic palletta e si prende anche il secondo set. È la fine. Si gioca solo per le statistiche.

Nel terzo set Djokovic va subito sul 2-1 e mette pressione sul servizio dell’avversario. C’è una palla break, annullata grazie al servizio. Nole non ne vuole sapere di lasciare le briciole al suo avversario e si procura un’altra palla break. Altro errore banale di Del Potro e 3 a 1. L’ultimo sussulto albiceleste è quello nel 5° gioco: una palla break che arriva dopo un doppio fallo serbo. Però prima era scattato il primo, atteso e doveroso warning, dopo che tutti, anche dal Bronx, si erano accorti che lo shot clock era andato abbondantemente sotto lo zero un po’ troppe volte. Se non si sanziona neanche con l’orologino allora a cosa serve? Mistero della Fede. Si arriva fino al 3 a 3, ma l’impressione è che il numero 3 del mondo non abbia minimamente in corpo la forza di vincere la partita. Potrebbe portare a casa il parziale, ma 3 set sono il Monte Everest in ciabatte. Non si può reggere questa pressione. Il break fatale arriva a 15 nell’8° gioco. Nole va a servire per il match. Chiude alla prima occasione con uno smash. Il colpo che maggiormente lo ha penalizzato nel corso della carriera. Sono 14, agganciato Sampras. Da strafinito ha vinto 2 Slam. Applausi per lui e per il volitivo Del Potro che qui ha avuto le maggiori soddisfazioni della sua carriera, ma oggi deve ingoiare il boccone amaro.

Il torneo

Il torneo del vincitore è stato molto strano. La tds 6 poco si addice al campione serbo, vincitore di Wimbledon e Cincinnati. Però lo schifo fatto fino a Parigi non può non condannarlo in classifica. Di fatto il suo sorteggio è molto benevolo, se non fosse per il tanto annunciato eventuale scontro ai quarti di finale contro Federer. Questo significa che per 4 turni può dormire sonni tranquilli, deve andare con le marce basse per poi sparare a mille contro il rivale di sempre che nel frattempo si trova nelle sue stesse condizioni. Tutto questo produce poco interesse nei primi incontri di Nole che però non si dimostra un leone o schiacciasassi, come fatto qui in passato in tante edizioni in cui è stato protagonista disputando 5 finali, la prima risalente al lontano 2007. Facile il primo turno contro Márton Fucsovics, che però ha l’ingrato compito di mettere in luce tutte le lacune di questo nuovo Djookvic, ben lontano dalle versioni monstre del 2015, per non parlare del 2011, ma sufficiente a fare risultato. Lascia per strada il secondo set. Però nel 3 su 5 ci sta lasciare qualche parziale qua e là; vincere uno Slam con lo sweep dei set è anche frutto della fortuna, oltre che l’ovvia bravura.

La stessa sorte spetta a Tennys Sandgren. Di lui non ricorderemo mai i suoi risultati, ma solo il nome. Chissà cosa avevano pensato i genitori quando è nato, ma soprattutto: uno, con un nome così, che cosa poteva fare nella vita? Destino segnato nella culla. Tennys si associa all’amico Marton from Nyíregyháza (era più facile Ibiza) e strappa un set al futuro campione. 2 partite, 2 set andati. Mmmm. Qui cominciano a diventare troppi.

Per fortuna nel terzo turno c’è il mai esploso talento francese Gasquet che gioca i suoi ultimi scampoli di carriera in attesa magari di aggiungere un altro torneino al suo palmarès, ma con la certezza matematica che mai vincerà uno Slam, neanche quello più agognato della madrepatria. Finalmente si vede un bel Djokovic, almeno nel punteggio. Un facile 6-2 6-3 6-3 che lo proietta all’ineluttabile sfida. Però prima c’è un’altra sosta.

Si gioca contro Joao Sousa, portoghese, arrivato qui grazie al disassemblamento di tanti mediocri tennisti che avrebbero potuto fare e non hanno fatto, o che hanno fatto, e forse fin troppo. Stiamo parlando di Lucas Pouille da un lato, tds 17, che ormai si è perso, forse definitivamente, e Carrello Busta, che qui, ci dicono gli annali, ha fatto semifinale nell’Anno Domini 2017. Qualche sprovveduto crede nella vittoria lusitana, ma più per azzardo che convinzione propria, e infatti viene punito inesorabilmente da un grande Nole che veleggia verso il più grande quarto di finale di sempre.

Federer gioca contro il carneade Millman. Di sera a New York. In Italia è notte. Dopo la vittoria del primo set sono diversi gli italiani che vanno a dormire perché debbono lavorare o studiare e non si può perdere tempo per una partita che non esiste. La sveglia suona. Si guarda lo smartphone. Si apre l’app di Diretta.it, sezione tennis e stranamente il nome di Millman appare in grassetto. Deve esserci un errore. Chiaro. È inconcepibile che il 20 volte campione Slam, 20 perda con questo scappato di casa. L’errore può essere nell’applicazione. La negazione aleggia tra il letto e la porta della propria camera. Magari Federer si è infortunato. Chissà. Meglio controllare il punteggio. 3-6, 7-5, 7-6(7), 7-6(3). Ahia. Forse vuol dire che lo svizzero ha buttato la partita. Si aprono i siti con la sintesi delle partite e si legge del misfatto. Più che il tennis giocato emerge la notizia del caldo che avrebbe condizionato il match. Conta poco per le statistiche. Il risultato clamoroso è che il quarto di finale più annunciato di sempre non ci sarà. Djokovic sarebbe partito favorito, dopo la finale di Cincinnati, ma Federer-Djokovic doveva essere la partita dell’edizione del cinquantennale della nascita dello US Open propriamente detto. È John l’Austrialiano il sostituto non gradito di una partita che non ha assolutamente senso. Magari la vittoria contro Federer poteva dargli qualche chance a priori. Ma serve a poco. Il quarto di finale sostitutivo è quanto di più scontato possa esistere. Ormai si sa che Djokovic è tornato al livello tale da essere superiore a tutto il circuito e inferiore solo a qualche versione un po’ moddata dei soli noti. Non le versioni migliori, ma quelle revival proposte in questi anni, che hanno valso loro qualche titoletto qua e là. Il peso di un intero nazione, il Sol Levante, è tutto sulle spalle di Kei Nishikori, già finalista qui nel 2014, e omologo della connazionale Naomi Osaka, in corsa per una straordinaria doppietta, mai sognata in Giappone e neanche ai tempi di Jiro Sato. In quella semifinale, quella del 2014, vinse il nipponico, producendo quello che nella scienza del tennis si chiama “effetto Cilic”, ossia una vittoria che toglie di mezzo il maggiore avversario del proprio beniamino, seguita dall’uscita inattesa del proprio. Da quella batosta sono passati 4 anni e 11 partite vinte da Nole, che anche in questa occasione ribadisce che quello fu solo un caso, una non prestazione condizionata molto dal caldo. Kei fa quello che può, ma il suo prime è già passato, e il suo gioco quasi a specchio ma con la metà dei cavalli vapore dell’avversario, lo condannano ad una sconfitta rapida e indolore. Per la tds 21 è già tanto essere arrivati qui. Si sperava in una partita che non c’è stata, così come l’omologa dell’altra parte del tabellone. Di fatto Nole arriva in finale affrontando una discesa libera che lo ha portato al titolo di slancio battendo l’unico avversario buono rimasto sulla carta, numero 3 del mondo, ma lontano anni luce da chi gli ha sempre dato fastidio sia a livello di risultati, ma soprattutto a livello di popolarità mediatica che è fonte diretta di popolarità storica.

Record

  • Djokovic vince il 14° Slam (3° all time dietro a Federer, Nadal, eguagliato Sampras)
  • 258 vittorie per Djokovic negli Slam (2° in era Open dietro a Federer)
  • 69 vittorie per Djokovic agli US Open (5° in era Open)
  • 23a finale Slam (3° dietro Federer e Nadal)
  • Per il 4° anno Djokovic vince 2 Slam in una stagione (insiema a lui Nadal e Sampras, dietro a Federer con 6)
  • 2° giocatore in Era Open a vincere almeno 3 volte 3 differenti prove del Grande Slam dopo Federer
  • Dal 2011 in poi solo Djokovic ha vinto 2 Slam consecutivi

Conclusione

Le 8 settimane che sconvolsero il tennis. Forse quando qualcuno scriverà di questo 2018 negli almanacchi parlerà di queste 8 settimane incredibili che hanno disatteso qualsiasi previsione era stata fatta ad inizio anno. E non solo ad inizio anno. Dopo la soffertissima trasferta primaverile americana e la sconfitta contro il modestissimo Cecchinato a Parigi, per Djokovic sembrava seriamente finita la bella stagione, seppur costellata da 12 titoli del Grande Slam, al cospetto dei 2 grandissimi suoi rivali. Quel 12 sembrava destinato a durare in eterno, mentre Federer e Nadal si spartivano, come a Tordesillas gli spagnoli e i portoghesi, gli Slam. La distanza ormai era diventata incolmabile, eppure ecco l’imprevisto. Djokovic non vince niente ma mette in fila il tris che vale una carriera. Rivince a Wimbledon, il torneo più importante dell’anno, vince a Cincinnati completando la collezione di Masters 1000, anch’essa destinata a rimanere incompleta. Vince a New York un altro Major e raggiunge Sampras, il cui record di Slam nel momento in cui venne realizzato, fu etichettato come uno di quelli che doveva durare per sempre. In 8 settimane Djokovic da strafinito si siede al tavolo dei più grandi di sempre e lo fa con grande prepotenza e una prospettiva che, paradossalmente, lo vede ancora trionfatore per tanto tempo. Nel 2016 si parlava di aggancio a Federer a 17 Slam, però nel frattempo l’asticella si è spostata a 20, con altri 3 titoli dello svizzero. Allora fu folle pronosticare un aggancio al Re, e lo è ancora oggi. Però suonano meno ridicole quelle parole pronunciate a sproposito e un po’ per sentirsi belli e pensare: “Eh, ma io ve l’avevo detto”. Pensare di vincere altri 6 Slam a 31 anni è ancora una follia. Però non lo è più di tanto se si pensa che la nuova generazione ha fallito miseramente. Mai nella storia del tennis si era visto un dominio così netto di soli 3 tennisti, dominio nei numeri e soprattutto nel tempo. Erano sempre nati ad un certo punto i nuovi virgulti che sarebbero diventati i campioni del futuro. Non è un caso che nella stessa generazione ci siano i 3 Slammers più importanti, anche se la ben nota storia del tennis penalizza i giocatori più forti del passato. Magari un giocatore poteva vincere più Major, massimo 2, ma metterne 3 della stessa epoca a pari dei 3 di questo scorcio temporale è assolutamente impossibile.

La stagione dei Major è finita e ancora una volta sono quei 3 ad aver arraffato tutto. Per il 4° anno consecutivo non c’è un nuovo vincitore, ed è record all time. Ancora il numero 1 di fine anno non è stato deciso, però 2 Slam e una stagione tutta in discesa da qui a Londra sembrano dare con particolare naturalezza lo scettro a Djokovic che d’ora in poi beneficerà dell’assenza di Nadal, che forse tornerà a Shanghai, ma comunque penalizzato dall’infortunio e dalla parte di stagione che peggio digerisce. Poi si aggiunge anche lo stato confusionale di Federer, vincitore a Melbourne, tornato numero 1, e poi assolutamente spento, in quello che forse sembra essere il cammino per il suo definito tramonto. Il forse è d’obbligo perché basta poco per riaccendere la miccia e ritrovare di nuovo sugli scudi lo svizzero. Per ora Nadal conserva 1035 punti di vantaggio su Nole nella Race to London. Fino a poco tempo fa sembravano molti, ma alla luce di quanto successo a New York sono pochissimi, visto che lo spagnolo potrebbe disertare Shanghai e con una vittoria il serbo potrebbe portarsi ad una manciata di punti dal numero 1 ATP che quasi sicuramente prenderà da qui a qualche mese.

Non è mai esistita una tale generazione di fenomeni nella storia del tennis. Forse solo il trio Gonzales-Rosewall-Laver si avvicina al trio Federer-Nadal-Djokovic, ma per spiegarlo ci vogliono un paio di libri e soprattutto una mente molto elastica. Meglio lasciare perdere questo discorso e pensare al presente. Il presente ormai è targato SRB. L’indoor è sempre stato terreno di caccia per Djokovic che potrebbe anche chiudere la imbattuto da qui a fine anno. Non sarebbe la prima volta che capita, anzi è capitato 2 volte: 2014, 2015. Allora c’era un ottimo Federer, oggi c’è un mediocre Federer. Chi fermerà la musica? Boh. Ora c’è la settimana dedicata alle semifinali di Coppa Davis, orfana di Nadal, poi ci sarà la Laver Cup con un altro trofeo da mettere in bacheca per Nole. Poi ancora tornei di bassa-media importanza. Shanghai è lontana. L’appello ai giovani si rinnova sempre, ma ormai sembra vano fare ogni tipo di invocazione. Quando il nuovo verrà, verrà (tautologicamente). Godiamoci questi ultimi scampoli della vera Davis, prima della sua morte annunciata. La stagione non è ancora finita, c’è un solo padrone, ma un padrone che non dà le certezze del passato. È tempo di cambiare o dell’assolo serbo? Vedremo.

 

US Open 2018: Day 14. Finale maschile. Djokovic ad un passo dal 14° Slam

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US Open 2018: Day 13. Finale femminile. Serena-Naomi, tutto già scritto

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US Open 2018: Day 12. Semifinali maschili. Nadal e Djokovic, sfida a distanza

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US Open 2018: Day 11. Semifinali femminili. Serena vuole un’altra finale

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US Open 2018: Day 10. Quarti di finale, Djokovic contro la sorpresa Millman

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US Open 2018: Day 9. Quarti di finale, Nadal-Thiem rivincita di Parigi

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US Open 2018: Day 8, Manic Monday

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US Open 2018: Day 7, Sunday Bloody Sunday

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