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US Open 2018: Nole 14. Djokovic vince il 3° titolo a New York

Non si ferma più il comeback di Djokovic. Dopo Wimbledon, vince gli US Open, aggancia Sampras e ha ancora fame.

La partita

La sfida che chiude questi US Open vede di fronte il lanciatissimo Djokovic contro un sempre lodevole, ma comunque inferiore, Juan Martin Del Potro. Fuori piove e si gioca con il tetto. Siccome Nole non era così favorito, la sorte l’ha voluto premiare giocando nelle condizioni che lui predilige maggiormente e con un avversario che arriva qui grazie all’infortunio di Nadal in semifinale. Il copione della partita è scontato come una commedia americana. Da un lato Nole gioca spesso e volentieri sul rovescio dell’avversario, quindi spingendo sulla sua diagonale di sinistra per mettere in difficoltà Juanito nel suo punto più debole, che però si difende girando lo scambio sul dritto, colpo che spinge molto quando può. Il risultato di queste 2 forze contrapposte è una particella sub-nucleare detta “backettino”. Sì, si gioca sullo slice molto frequentemente e la partita, così, ne risulta molto noiosa. Nelle prime battute c’è estremo equilibrio ed è il numero 6 del mondo a subire maggiormente lo scambio perdendo più punti al servizio. Ma niente di grave: se non si arriva a palla break non vale a niente collezionare punti su punti in risposta. Dopo mezz’ora arriva il primo imprevisto. 4-3 40-0. Turno di battuta che va spedito verso la fine e invece no. Del Potro si incarta su sé stesso e si fa rimontare come un Federer qualsiasi. Nole ha il merito di non lasciare niente al caso, però dall’altra parte della rete almeno 2 dritti della vergogna condannano senza appello l’argentino. Dopo il break il set scorre velocemente e si chiude subito alla prima occasione. 6-3 e partita ampiamente finita.

Del Potro è scoraggiato da un set che poteva benissimo andare al tiebreak, ma che gli è sfuggito per colpa di un maledetto break. Questa depressione lo porta ad andare sotto anche quando è lui a battere nel secondo parziale e grazie ad un passante di rovescio Djokovic si procura una palla break. Per fortuna viene annullata. Però ce n’è un’altra. Sfugge anche questa. La partita stava per scappare, ma per ora rimane in gabbia. Juanito sbaglia ogni oltre misura, indotto anche da un ritrovato Nole che costringe sempre a giocare male il suo avversario. Break e 3-1 che sa di titoli di coda. Un gruppetto di 16 argentini ci crede, ci ha sempre creduto e sempre ci crederà. Grida a squarcia gola: ”Oleeeee, Ole, Ole, Oleeee, Del Pooooo, Del Pooooo”. È la carica giusta. Meglio del Pocket Coffee. Del Potro tiene il servizio e sale con i colpi fotonici di dritto. Djokovic soffre terribilmente e non riesce a girare lo scambio come vorrebbe. C’è la prima palla break. Sfugge per colpa di un passante andato male. C’è un’altra occasione. È quella buona. Djokovic mette fuori con il dritto e siamo sul 3 pari. La partita è girata. Juan Martin vola sulle ali dei tanti tifosi argentini che ora lo sostengono a gran voce e piazza l’ace che fa tremare tutta Flushing Meadows. 4 a 3. L’8° gioco è la chiave di tutto l’incontro. Dura 22 punti e si vedono ben 3 palle break. Sono quelle che avrebbero cambiato la storia del match e non solo. Però non si passa. Molte sono le colpe dell’argentino e qualche merito va dato anche al serbo che non ha mollato quando ormai l’inerzia non era più dalla sua parte. Ottenuto il 4 pari si va spediti verso il tiebreak. L’ultimo treno per Buenos Aires. Del Potro va avanti di un minibreak, ma vale a poco, perché Nole azzanna il suo avversario ed è presto sul 3-3. La partita svolta per Belgrado e l’errore di dritto di Del Potro segna l’ora fatale con un minibreak che vale il set point sul 6-4. Djokovic palletta e si prende anche il secondo set. È la fine. Si gioca solo per le statistiche.

Nel terzo set Djokovic va subito sul 2-1 e mette pressione sul servizio dell’avversario. C’è una palla break, annullata grazie al servizio. Nole non ne vuole sapere di lasciare le briciole al suo avversario e si procura un’altra palla break. Altro errore banale di Del Potro e 3 a 1. L’ultimo sussulto albiceleste è quello nel 5° gioco: una palla break che arriva dopo un doppio fallo serbo. Però prima era scattato il primo, atteso e doveroso warning, dopo che tutti, anche dal Bronx, si erano accorti che lo shot clock era andato abbondantemente sotto lo zero un po’ troppe volte. Se non si sanziona neanche con l’orologino allora a cosa serve? Mistero della Fede. Si arriva fino al 3 a 3, ma l’impressione è che il numero 3 del mondo non abbia minimamente in corpo la forza di vincere la partita. Potrebbe portare a casa il parziale, ma 3 set sono il Monte Everest in ciabatte. Non si può reggere questa pressione. Il break fatale arriva a 15 nell’8° gioco. Nole va a servire per il match. Chiude alla prima occasione con uno smash. Il colpo che maggiormente lo ha penalizzato nel corso della carriera. Sono 14, agganciato Sampras. Da strafinito ha vinto 2 Slam. Applausi per lui e per il volitivo Del Potro che qui ha avuto le maggiori soddisfazioni della sua carriera, ma oggi deve ingoiare il boccone amaro.

Il torneo

Il torneo del vincitore è stato molto strano. La tds 6 poco si addice al campione serbo, vincitore di Wimbledon e Cincinnati. Però lo schifo fatto fino a Parigi non può non condannarlo in classifica. Di fatto il suo sorteggio è molto benevolo, se non fosse per il tanto annunciato eventuale scontro ai quarti di finale contro Federer. Questo significa che per 4 turni può dormire sonni tranquilli, deve andare con le marce basse per poi sparare a mille contro il rivale di sempre che nel frattempo si trova nelle sue stesse condizioni. Tutto questo produce poco interesse nei primi incontri di Nole che però non si dimostra un leone o schiacciasassi, come fatto qui in passato in tante edizioni in cui è stato protagonista disputando 5 finali, la prima risalente al lontano 2007. Facile il primo turno contro Márton Fucsovics, che però ha l’ingrato compito di mettere in luce tutte le lacune di questo nuovo Djookvic, ben lontano dalle versioni monstre del 2015, per non parlare del 2011, ma sufficiente a fare risultato. Lascia per strada il secondo set. Però nel 3 su 5 ci sta lasciare qualche parziale qua e là; vincere uno Slam con lo sweep dei set è anche frutto della fortuna, oltre che l’ovvia bravura.

La stessa sorte spetta a Tennys Sandgren. Di lui non ricorderemo mai i suoi risultati, ma solo il nome. Chissà cosa avevano pensato i genitori quando è nato, ma soprattutto: uno, con un nome così, che cosa poteva fare nella vita? Destino segnato nella culla. Tennys si associa all’amico Marton from Nyíregyháza (era più facile Ibiza) e strappa un set al futuro campione. 2 partite, 2 set andati. Mmmm. Qui cominciano a diventare troppi.

Per fortuna nel terzo turno c’è il mai esploso talento francese Gasquet che gioca i suoi ultimi scampoli di carriera in attesa magari di aggiungere un altro torneino al suo palmarès, ma con la certezza matematica che mai vincerà uno Slam, neanche quello più agognato della madrepatria. Finalmente si vede un bel Djokovic, almeno nel punteggio. Un facile 6-2 6-3 6-3 che lo proietta all’ineluttabile sfida. Però prima c’è un’altra sosta.

Si gioca contro Joao Sousa, portoghese, arrivato qui grazie al disassemblamento di tanti mediocri tennisti che avrebbero potuto fare e non hanno fatto, o che hanno fatto, e forse fin troppo. Stiamo parlando di Lucas Pouille da un lato, tds 17, che ormai si è perso, forse definitivamente, e Carrello Busta, che qui, ci dicono gli annali, ha fatto semifinale nell’Anno Domini 2017. Qualche sprovveduto crede nella vittoria lusitana, ma più per azzardo che convinzione propria, e infatti viene punito inesorabilmente da un grande Nole che veleggia verso il più grande quarto di finale di sempre.

Federer gioca contro il carneade Millman. Di sera a New York. In Italia è notte. Dopo la vittoria del primo set sono diversi gli italiani che vanno a dormire perché debbono lavorare o studiare e non si può perdere tempo per una partita che non esiste. La sveglia suona. Si guarda lo smartphone. Si apre l’app di Diretta.it, sezione tennis e stranamente il nome di Millman appare in grassetto. Deve esserci un errore. Chiaro. È inconcepibile che il 20 volte campione Slam, 20 perda con questo scappato di casa. L’errore può essere nell’applicazione. La negazione aleggia tra il letto e la porta della propria camera. Magari Federer si è infortunato. Chissà. Meglio controllare il punteggio. 3-6, 7-5, 7-6(7), 7-6(3). Ahia. Forse vuol dire che lo svizzero ha buttato la partita. Si aprono i siti con la sintesi delle partite e si legge del misfatto. Più che il tennis giocato emerge la notizia del caldo che avrebbe condizionato il match. Conta poco per le statistiche. Il risultato clamoroso è che il quarto di finale più annunciato di sempre non ci sarà. Djokovic sarebbe partito favorito, dopo la finale di Cincinnati, ma Federer-Djokovic doveva essere la partita dell’edizione del cinquantennale della nascita dello US Open propriamente detto. È John l’Austrialiano il sostituto non gradito di una partita che non ha assolutamente senso. Magari la vittoria contro Federer poteva dargli qualche chance a priori. Ma serve a poco. Il quarto di finale sostitutivo è quanto di più scontato possa esistere. Ormai si sa che Djokovic è tornato al livello tale da essere superiore a tutto il circuito e inferiore solo a qualche versione un po’ moddata dei soli noti. Non le versioni migliori, ma quelle revival proposte in questi anni, che hanno valso loro qualche titoletto qua e là. Il peso di un intero nazione, il Sol Levante, è tutto sulle spalle di Kei Nishikori, già finalista qui nel 2014, e omologo della connazionale Naomi Osaka, in corsa per una straordinaria doppietta, mai sognata in Giappone e neanche ai tempi di Jiro Sato. In quella semifinale, quella del 2014, vinse il nipponico, producendo quello che nella scienza del tennis si chiama “effetto Cilic”, ossia una vittoria che toglie di mezzo il maggiore avversario del proprio beniamino, seguita dall’uscita inattesa del proprio. Da quella batosta sono passati 4 anni e 11 partite vinte da Nole, che anche in questa occasione ribadisce che quello fu solo un caso, una non prestazione condizionata molto dal caldo. Kei fa quello che può, ma il suo prime è già passato, e il suo gioco quasi a specchio ma con la metà dei cavalli vapore dell’avversario, lo condannano ad una sconfitta rapida e indolore. Per la tds 21 è già tanto essere arrivati qui. Si sperava in una partita che non c’è stata, così come l’omologa dell’altra parte del tabellone. Di fatto Nole arriva in finale affrontando una discesa libera che lo ha portato al titolo di slancio battendo l’unico avversario buono rimasto sulla carta, numero 3 del mondo, ma lontano anni luce da chi gli ha sempre dato fastidio sia a livello di risultati, ma soprattutto a livello di popolarità mediatica che è fonte diretta di popolarità storica.

Record

  • Djokovic vince il 14° Slam (3° all time dietro a Federer, Nadal, eguagliato Sampras)
  • 258 vittorie per Djokovic negli Slam (2° in era Open dietro a Federer)
  • 69 vittorie per Djokovic agli US Open (5° in era Open)
  • 23a finale Slam (3° dietro Federer e Nadal)
  • Per il 4° anno Djokovic vince 2 Slam in una stagione (insiema a lui Nadal e Sampras, dietro a Federer con 6)
  • 2° giocatore in Era Open a vincere almeno 3 volte 3 differenti prove del Grande Slam dopo Federer
  • Dal 2011 in poi solo Djokovic ha vinto 2 Slam consecutivi

Conclusione

Le 8 settimane che sconvolsero il tennis. Forse quando qualcuno scriverà di questo 2018 negli almanacchi parlerà di queste 8 settimane incredibili che hanno disatteso qualsiasi previsione era stata fatta ad inizio anno. E non solo ad inizio anno. Dopo la soffertissima trasferta primaverile americana e la sconfitta contro il modestissimo Cecchinato a Parigi, per Djokovic sembrava seriamente finita la bella stagione, seppur costellata da 12 titoli del Grande Slam, al cospetto dei 2 grandissimi suoi rivali. Quel 12 sembrava destinato a durare in eterno, mentre Federer e Nadal si spartivano, come a Tordesillas gli spagnoli e i portoghesi, gli Slam. La distanza ormai era diventata incolmabile, eppure ecco l’imprevisto. Djokovic non vince niente ma mette in fila il tris che vale una carriera. Rivince a Wimbledon, il torneo più importante dell’anno, vince a Cincinnati completando la collezione di Masters 1000, anch’essa destinata a rimanere incompleta. Vince a New York un altro Major e raggiunge Sampras, il cui record di Slam nel momento in cui venne realizzato, fu etichettato come uno di quelli che doveva durare per sempre. In 8 settimane Djokovic da strafinito si siede al tavolo dei più grandi di sempre e lo fa con grande prepotenza e una prospettiva che, paradossalmente, lo vede ancora trionfatore per tanto tempo. Nel 2016 si parlava di aggancio a Federer a 17 Slam, però nel frattempo l’asticella si è spostata a 20, con altri 3 titoli dello svizzero. Allora fu folle pronosticare un aggancio al Re, e lo è ancora oggi. Però suonano meno ridicole quelle parole pronunciate a sproposito e un po’ per sentirsi belli e pensare: “Eh, ma io ve l’avevo detto”. Pensare di vincere altri 6 Slam a 31 anni è ancora una follia. Però non lo è più di tanto se si pensa che la nuova generazione ha fallito miseramente. Mai nella storia del tennis si era visto un dominio così netto di soli 3 tennisti, dominio nei numeri e soprattutto nel tempo. Erano sempre nati ad un certo punto i nuovi virgulti che sarebbero diventati i campioni del futuro. Non è un caso che nella stessa generazione ci siano i 3 Slammers più importanti, anche se la ben nota storia del tennis penalizza i giocatori più forti del passato. Magari un giocatore poteva vincere più Major, massimo 2, ma metterne 3 della stessa epoca a pari dei 3 di questo scorcio temporale è assolutamente impossibile.

La stagione dei Major è finita e ancora una volta sono quei 3 ad aver arraffato tutto. Per il 4° anno consecutivo non c’è un nuovo vincitore, ed è record all time. Ancora il numero 1 di fine anno non è stato deciso, però 2 Slam e una stagione tutta in discesa da qui a Londra sembrano dare con particolare naturalezza lo scettro a Djokovic che d’ora in poi beneficerà dell’assenza di Nadal, che forse tornerà a Shanghai, ma comunque penalizzato dall’infortunio e dalla parte di stagione che peggio digerisce. Poi si aggiunge anche lo stato confusionale di Federer, vincitore a Melbourne, tornato numero 1, e poi assolutamente spento, in quello che forse sembra essere il cammino per il suo definito tramonto. Il forse è d’obbligo perché basta poco per riaccendere la miccia e ritrovare di nuovo sugli scudi lo svizzero. Per ora Nadal conserva 1035 punti di vantaggio su Nole nella Race to London. Fino a poco tempo fa sembravano molti, ma alla luce di quanto successo a New York sono pochissimi, visto che lo spagnolo potrebbe disertare Shanghai e con una vittoria il serbo potrebbe portarsi ad una manciata di punti dal numero 1 ATP che quasi sicuramente prenderà da qui a qualche mese.

Non è mai esistita una tale generazione di fenomeni nella storia del tennis. Forse solo il trio Gonzales-Rosewall-Laver si avvicina al trio Federer-Nadal-Djokovic, ma per spiegarlo ci vogliono un paio di libri e soprattutto una mente molto elastica. Meglio lasciare perdere questo discorso e pensare al presente. Il presente ormai è targato SRB. L’indoor è sempre stato terreno di caccia per Djokovic che potrebbe anche chiudere la imbattuto da qui a fine anno. Non sarebbe la prima volta che capita, anzi è capitato 2 volte: 2014, 2015. Allora c’era un ottimo Federer, oggi c’è un mediocre Federer. Chi fermerà la musica? Boh. Ora c’è la settimana dedicata alle semifinali di Coppa Davis, orfana di Nadal, poi ci sarà la Laver Cup con un altro trofeo da mettere in bacheca per Nole. Poi ancora tornei di bassa-media importanza. Shanghai è lontana. L’appello ai giovani si rinnova sempre, ma ormai sembra vano fare ogni tipo di invocazione. Quando il nuovo verrà, verrà (tautologicamente). Godiamoci questi ultimi scampoli della vera Davis, prima della sua morte annunciata. La stagione non è ancora finita, c’è un solo padrone, ma un padrone che non dà le certezze del passato. È tempo di cambiare o dell’assolo serbo? Vedremo.